Gli storioni di Calvisius

Calvisius era la denominazione latina di Calvisano, un piccolo comune della provincia di Brescia. L'origine di questo toponimo si ritiene sia legata ad una persona, la cui lapide romana è stata ritrovata a Maderno. Una leggenda narra che all'epoca dell'antica Roma Calvisius, un nobile dai gusti raffinati, si trasferì nell'odierna cittadina di Calvisano, ricca di freschissime acque di risorgiva, per allevare storioni ed avere sempre a disposizione caviale fresco per i suoi banchetti. Le preziose uova nere venivano servite ai commensali con un vero e proprio rito. Il caviale veniva infatti offerto agli ospiti in coppette d'argento, coronate di scagliette di ghiaccio e ghirlande di fiori: una vera delizia per gli occhi e il palato, tanto che molto presto il nome di questo magnifico anfitrione si estese a tutta la località in cui viveva.
 

Le oche di Calvisano

Quando il console romano Calvisius arrivò nella pianura padana l'inverno era alle porte. Pensò allora di svernare con le sue truppe nel luogo dove adesso sorge Calvisano. Vi costruì un accampamento fortificato che con il tempo si trasformò in un pacifico vicus dove, con le genti del posto cominciò a prosperare l'attività agricola. Calvisius, al fine di dare l'allarme alle sentinelle poste a difesa del terraglio, aveva fatto mettere nelle acque delle fosse alcune oche le quali ogni volta che qualcuno si avvicinava dall'esterno, si mettevano a starnazzare mettendo in allerta il presidio della difesa. Passarono gli anni e le oche, divenute assai numerose rimasero a popolare le fosse fino a quando, in tempi moderni queste fosse  furono fatte sparire convogliandole in canali sotterranei.

 

I cervi a Calvisano

Si racconta che all'alba del Medioevo, anche nel territorio di Calvisano pascolassero dei cervi. Erano soliti abbeverarsi ad una vaso naturale che scorreva, e scorre ancora, nella campagna occidentale. Questo vaso è infatti chiamato Ceriana, proprio perchè era il preferito dai cervi calvisanesi che vivevano in piccoli branchi. Questi animali scorrazzavano indisturbati nei boschi rigogliosi che circondavano tutto il borgo e segnavano il confine con Isorella, Montichiari e Ghedi.

 

La razzia nella cappella di San Zeno

A Sud-Est del paese sorgeva la cappella di San Zeno la cui origine fu forse dovuta alla iniziativa di un monaco errante del monastero di San Zeno che volle dotare l’esistente villaggio rurale di un centro di raccolta e preghiera. Nell’anno 740 la cappella e le campane subirono la razzia di una banda di affamati montanari della Val Camonica, gli "Angeli", che il Monaco Odosino aveva guidato nella pianura.

 

Gli orchi a Calvisano

Gli Onogur (Ungari), popolo nomade proveniente dalla steppa dell'Asia Centrale, si era stanziato nel territorio dell'attuale Ungheria. Poi, dalla fine del IX secolo e l'inizio del X, aveva cominciato a raziare molte zone dell'Impero Carolingio, soprattutto la Pianura Padana. Non risparmiarono il Bresciano e passarono più volte anche dal tranquillo villaggio di Calvisano, saccheggiando e distruggendo tutto.Narra la leggenda che gli abitanti di Calvisano erano così spaventati da questi vandali che li chiamavano Orchi. Avevano infatti barba e capelli così lunghi che coprivano il viso, vestivano di pelli e pellicce e compivano le  ruberie senza mai scendere dai loro potenti cavalli. I Calvisanesi assistevano impotenti e terrorizzati alle loro incursioni e tramandarono nei secoli il ricordo tremendo di questi barbari che a loro sembravano dei mostri venuti da chissà dove. La storia narra che il popolo di Calvisano cominciò a fortificare il villaggio con delle mura per difendersi dagli attacchi improvvisi e devastanti di questo popolo, ma per molto tempo questi Orchi continuarono a turbare i sogni di grandi e piccini.

 

Saugo e la vecchia "Rampina"

Dopo la fine del regno dei Franchi, per difendersi dalle continue invasioni degli Ungari, nel secolo X, la popolazione costruì un castrum circondato da una fossa con le acque del torrente Saugo, munito di mura con due poderose porte, tuttora esistenti, una a Nord e l'altra a Sud. Questa fossa era profonda, ricca d'acqua e pericolosa. Per questo, per scoraggiare i bambini a giocare vicino alle acque del Saugo, gli anziani di Calvisano inventarono la leggenda della vecchia "Rampina", secondo la quale, in fondo al fossato viveva una vecchia dall'aspetto orribile. Si nutriva solo di carne giovane e aveva l'indice della mano destra a forma di rampino per catturare, come con un amo, chi si fosse avvicinato alle acque. Nelle fredde giornate invernali, quando il Saugo si ghiacciava e sembrava una lastra di vetro, qualcuno giurò di averla vista guardar fuori, in cerca di qualche sprovveduto bambinetto. Nessun fanciullo osava avvicinarsi al fossato e tremava al solo pensiero di incrociare il suo sguardo arcigno. 

 

Il pane di San Michele

Nell'anno 1109 Leutelmo da Esine, capitano di ventura, tentò di impadronirsi di Calvisano devastando le sue terre ed impedendo che nel castello entrassero i viveri per la popolazione. Da parecchio tempo durava l'assedio ed il pane, per l'assediati, non era altro che un lontano ricordo. I primi a sentirne la mancanza furono i vecchi, le donne e i bambini. Era il 29 Settembre, giorno di San Michele. Il popolo aveva pregato tutta la notte. La Comunità era da tempo riunita per decidere il da farsi. Gli uomini, sfiniti, vigilavano dalle mura. Quando, verso sera, il digiuno aveva ormai sfinito i consiglieri e l'ordine di resa stava per essere emanato, si udirono grida di gioia. Tutta la popolazione accorse, con il sindaco Arimanno e l'abate. Davanti alla porta del castello c'era un carro tirato da quattro paia di buoi con un enorme carico di pane. Sul carro stava un guerriero alato con la lancia in pugno: San Michele. Vennerro divelte le travi di sicurezza, si aprì la porta e fu abbassato il ponte levatoio. Il carro fu portato fino alla porta della chiesa, mentre il guerriero era sparito. L'abate fece inginocchiare tutta la popolazione per ringraziare l'Arcangelo San Michele, mentre il nemico, che da lontano aveva assistito al miracolo, capì che ormai non c'era più nulla da fare e  Calvisano si salvò.

 

Le leggende della Beata Cristina


Il cestino

La nostra patrona, Beata Cristina, nacque a Calvisano nell'anno 1435 da Giovanni e Margherita Semenzi. Fin da piccola dimosrtava di possedere una grande fede religiosa: andava a messa tutti i giorni e ogni volta che poteva tornava in chiesa a pregare e a recitare il Rosario. Imparava il catechismo dai sacerdoti e dalle suore di Calvisano e voleva molto bene ai suoi genitori, anche loro ferventi Cristiani. Quando la fanciulla aveva dieci anni, i suoi amati genitori morirono e lei rimase a vivere col fratello Antonio che pensava solo al lavoro e per questo motivo si comportava spesso in modo cattivo ed egoista. Un giorno d'estate la ragazza, mentre portava in un cestino i viveri per suo fratello che lavorava nei campi, incontrò tre poveri vagabondi che le chiesero qualcosa da mangiare. Cristina, che era molto buona sfamò i tre poveri diavoli e quando si accorse che per il fratello non era rimasto più niente, corse in una chiesetta lì vicino a pregare Gesù affinchè la aiutasse. In quel momento arrivò il fratello e chiese dove fosse il pranzo. Cristina, sicura che il Signore l'avrebbe aiutata, indicò il cestino al fratello, il quale, quasi arrabbiato aprì il cestino e vi trovò cibi e bevande.

 

Il grembiule e la rosa

Cristina visitava spesso l'Ospedale di Calvisano per offrire aiuto ai poveri ammalati. Un giorno mise tutto il pane che aveva in casa nel grembiule per portarlo ai poveri. Arrivata davanti alla chiesa di San Michele, incontrò suo fratello il quale, con tono minaccioso le ordinò di mostrargli cosa avesse nascosto nel grembiule. La giovane pregò il Signore e poi disse al fratello che aveva raccolto dei fiori da portare agli ammalati. Antonio, che non le credeva, le afferrò il vestito e lo aprì. Rimase sbalordito quando lo vide pieno di rose fresche. Di fronte al miracolo non gli restò che permettere a Cristina di proseguire la sua strada. Arrivata all'Ospedale, le rose si tramutarono ancora in pane. La ragazza si accorse che nel grembiule ne era rimasta una, la più bella. Allora corse a casa per metterla davanti al quadro della Vergine Maria. Quella rosa rimase sempre fiorita per tutto il tempo che Cristina visse a Calvisano. In ricordo di questo prodigio, la chiesa dei Padri Domenicani fu chiamata "Chiesa di Santa Maria della Rosa".

 

La tempesta

A quattordici anni, Cristina prese i voti a Brescia e diventò una suora dell'Ordine delle Terziarie di Sant'Agostino. Poi tornò a Calvisano per testimoniare la fede nel proprio paese.

Nel periodo della mietitura, Antonio ordinò alla giovane di portare il frumento già tagliato nell'aia, anche se lei voleva che andassero tutti a Messa perché altrimenti si sarebbe scatenata una grande tempesta che avrebbe rovinato tutto il raccolto. L'uomo non la stette neanche a sentire e la obbligò ad aiutare le altre donne a spargere il frumento. Mentre lavoravano scoppiò un terribile temporale e il vento disperse tutte le spighe raccolte. La ragazza rimproverò il fratello di non averla ascoltata e lui, furibondo per aver perso il raccolto, la colpì con un bastone.

 

La fuga miracolosa

Terrorizzata, Cristina fuggì ed arrivò a Montichiari dove si stabilì definitivamente. Antonio, dopo mesi di ricerche la raggiunse per riportarla a casa. Vedendolo arrivare, scappò di nuovo e arrivò sul fiume Chiese. Voleva attraversarlo ma il corso d'acqua era in piena e quindi pericoloso, lei si fermò sulla riva e pregò la Vergine Maria di aiutarla. Quando vide che suo fratello ed i suoi parenti si stavano avvicinando, cominciò a correre sull'acqua come su un pavimento lucido e raggiunse l'altra sponda sana e salva senza neppure bagnarsi i piedi. Alcuni presenti, quando ritornarono a Calvisano, raccontarono di aver visto la Madonna tener abbracciata Cristina e aiutarla ad oltrepassare il fiume.

 

L'esercito francese

Cristina si trasferì a Spoleto dove continuò a pregare e ad aiutare i poveri e gli ammalati. Morì il 14 Febbraio 1458 e anche il fratello la raggiunse e si pentì del suo comportamento. Nell'anno 1512 l'esercito francese aveva invaso Brescia e dopo aver saccheggiato la città, cominciò a devastare anche la provincia. Giunse anche a Calvisano e la popolazione era disperata. La comunità si riunì in chiesa e cominciò a pregare Cristina per chiederle aiuto. Quando il generale Gaston de Fois stava per dare il comando di attaccare, Cristina comparve davanti ai soldati con una cintura d'oro che le attraverasava il petto e reggeva sul fianco una spada. Sfoderò la lama fiammeggiante e ordinò ai nemici di ritirarsi. Terrorizzati i soldati scapparono via in fretta, abbandonando tuute le armi e le armature che rallentavano la fuga. I calvisanesi, di fronte a questo miracolo che li aveva salvati, fecero una grande festa. Per ringraziare Cristina le dedicarono un altare nella chiesa parrocchiale e decisero che da allora in poi il 14 Febbraio sarebbe stato il giorno dedicato alla commemorazione della Santa, per ringraziarla di tutto il bene che aveva fatto per Calvisano.

 

I Lanzichenecchi e la peste del 1630

La storia ci narra che i Lanzichenecchi, soldati mercenari di fanteria provenienti dal Sacro Romano Impero,invasero anche il territorio bresciano scendendo in Italia dai Grigioni e dalla Valtellina per partecipare alla guerra di successione di Mantova e del Monferrato. Dove passavano distruggevano e saccheggiavano. La loro calata, oltre che devastazione, portò la peste. A Calvisano i morti furono quattrocentoottanta, sepolti in località Ziglie, dove, ancora oggi una croce li ricorda. La leggenda, tramandata oralmente, racconta che i contadini di Calvisano, per salvare le provviste dalle ruberie dei Lanzichenecchi, le nascosero in un posto sicuro. Purtroppo, insieme ai Lanzichenecchi arrivarono anche i topi, nascosti nei loro rifornimenti, i quali impestarono la campagna calvisanese e consumarono le scorte di cibo nascoste.

 

ALTRE LEGGENDE.....

 

Il Conte di Carmagnola

La storia narra che il Conte di Carmagnola, al servizio della Repubblica di Venezia, prima di sostenere la famosa battaglia di Maclodio contro le truppe viscontee, occupò Calvisano, nel Settembre 1427. La leggenda racconta che il capitano di ventura si accampò nella campagna calvisanese per far riposare i suoi uomini e "parcheggiò" i suoi carri balestra, che nessuno aveva mai visto prima, e che lui usò per la prima volta in guerra proprio nella battaglia di Maclodio. La popolazione calvisanese, usciva di nascosto dalle mura del castello fortificato per vedere questi carri balestra. Alcuni giovani temerari ne rimasero così affascinati che si arruolarono con l'esercito del Carmagnola che vinse le truppe dei Visconti di Milano, a Maclodio, il 12 Ottobre 1427.

 

Francesco Secco

Francesco Secco (1423-1496) fu un altro capitano di ventura che passò a Calvisano, a servizio di Federico Gonzaga. Nel 1483 occupò Calvisano e si stabilì con tutto il suo esercito all'interno del castello fortificato. La storia narra che la popolazione di Calvisano riuscì a ribellarsi e a cacciare gli usurpatori. La leggenda racconta che Francesco Secco amasse la campagna calvisanese e soprattutto i boschi che circondavano l'antico borgo. Qui si recava a caccia e questo infastidiva sia i poveri contadini di Calvisano che i nobili proprietari. Per questo si allearono di buon grado per scacciarlo e vi riuscirono.